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Così cresce il business dell’acqua

Data pubblicazione: 20 settembre 2024

Autore:

TrueNumbers.it per Fineco Bank
Rappresentazione visiva dell'articolo: Così cresce il business dell’acqua
  • Il 42,4% dell’acqua prodotta in Italia viene persa, nel Mezzogiorno più del 50% e ogni anno è peggio
  • Ma la spesa pro capite per l’acqua, in 10 anni, è cresciuta del 6,8%
  • L’indice S&P Global Water Index in 10 anni, è assicurato un ritorno del 9,76


Il grande spreco

Perdiamo il 42,4% di acqua

Con operatori troppo piccoli gli investimenti non bastano

Ma stanno lentamente crescendo


Percentuale di dispersione per regione

Fonte: Istat, 2022 e Ambrosetti


I numeri dicono che la gestione della rete idrica è la maggiore inefficienza italiana: in nessun ambito industriale il 42,4% di ciò che viene prodotto viene smarrito. Perso. Buttato via. È quello che, invece, succede con l’acqua e si tratta di una percentuale molto superiore alla media europea, del 25%.


Dove sono le perdite maggiori


Come si vede dalla nostra infografica le perdite maggiori si registrano nel Mezzogiorno, dove superano il 50%. Emblematico è il caso di Basilicata, Molise, Abruzzo, Sicilia, Sardegna, che “producono” più acqua della media nazionale ma ne usano meno della media. Per esempio i corsi d’acqua delle montagne abruzzesi generano 545 litri al giorno pro capite, ma solo 205 arrivano a destinazione: il 62,5% in meno. Il record negativo, però, è quello della Basilicata, con perdite del 65,5%, mentre quelle molisane sono del 53,9%, quelle sarde del 52,8% e quelle siciliane del 51,6%. Le aree più virtuose, quelle in cui si spreca meno acqua, sono l’Alto Adige, in cui le perdite si fermano al 28,8% e poi l’Emilia-Romagna e la Valle d’Aosta, in cui sono appena sotto al 30%.


Se vogliamo dare ancora meglio la dimensione dell’emergenza, ecco altri numeri. Nel 2022 (dati Istat più recenti) sono stati prelevati 9.142,4 milioni di metri cubi di acqua per uso potabile da pozzi, sorgenti, acque superficiali e, in piccolissima parte, da acque marine o salmastre. Di questi 9,1 milioni di metri cubi ne sono stati immessi in rete solo 8 milioni, che corrispondono a 371 litri pro capite giornalieri, con un massimo di 545 litri in Abruzzo e un minimo di 262 litri in Puglia. Tuttavia non tutta quest’acqua giunge nelle case, nelle scuole, nelle imprese, negli alberghi, nelle fontane cittadine, anzi. Dopo la perdita del 42,4% a causa di prelievi non autorizzati e falle nel sistema idrico, a essere utilizzati sono solo 214 litri al giorno. La quantità mancante, secondo i calcoli dell’Istat, potrebbero dissetare 43,4 milioni di persone per un anno.


Dieci anni fa lo scenario, già grave, era meno drammatico. Nel 2012 l’acqua potabile erogata era di 241 litri giornalieri, ovvero il 12,6% in più rispetto al 2022, e le perdite erano inferiori, ammontavano al 37,4%. Sono poi salite al 41,4% nel 2015, al 42,2% nel 2020, fino ad arrivare al 42,4% del 2022.


Se poi il confronto è con un periodo ancora precedente, il 2008, è ancora più evidente il deterioramento del sistema di distribuzione dell’acqua. Sedici anni fa le perdite erano solo del 32,1%, in nessuna regione arrivavano al 50% e in alcune di quelle del Mezzogiorno, come Basilicata e Sicilia, dove oggi sono sopra tale soglia, erano inferiori al 40%.


Crescono gli investimenti nel settore idrico


La situazione tragica della gestione delle risorse idriche in Italia ha provocato nel tempo una corsa ai ripari, con un aumento degli investimenti “spinti” anche da un aumento della spesa pro capite per l’acqua potabile che è stato di ben il 6,8% annuo. Si è passati in 10 anni da 31,3 a 64 euro per abitante, con un’accelerazione tra il 2017 e il 2022 (in cui si è passati da 38,7 a 64 euro) e nel 2023, si stima, si è arrivati a 70 euro pro capite, avvicinandoci alla media europea.


Un’altra tendenza di questa industry è la concentrazione degli operatori: i comuni gestori in economia erano 2.098 nel 2016 e sono calati in sei anni ai 1.465 ma dovranno scendere ancora, man mano che saranno effettuati gli affidamenti ai gestori unici di area previsti per legge. Secondo alcuni analisti, come Arthur D Little, sarà conveniente arrivare a solo 65 grandi soggetti, molti dei quali privati o misti pubblici e privati, anche quotati, su cui, evidentemente sarà possibile investire, per partecipare alla crescita del settore. Considerando poi che alla soluzione dell’emergenza idrica sono destinati 5,4 miliardi provenienti dal Pnrr, si capisce perché questo settore è destinato a ricevere attenzioni particolari.


Gli investimenti nelle aziende dell’acqua rendono


D’altra parte la crescita delle risorse economiche da dedicare all’acqua caratterizzerà tutto il mondo. Le Nazioni Unite calcolano che per garantire a tutti l’accesso all’acqua potabile e a strutture igienico-sanitarie sufficienti (obiettivo 6 dell’Agenda 2030) sono necessari mille miliardi di dollari l’anno che dovranno arrivare non solo dalle casse pubbliche ma soprattutto da investimenti privati destinati sia a soddisfare una domanda crescente. Non solo: secondo Bluefields Research crescerà moltissimo il business del riuso delle acque depurate delle città che vedrà aumentare gli investimenti del 16,82% entro il 2030.


I ritorni dell’S&P Global Water Index


Protagoniste di questa rivoluzione dell’acqua saranno le grandi imprese. Basta guardare lo S&P Global Water Index che raccoglie i dati di 100 aziende globali impegnate sia nella distribuzione d’acque che nelle infrastrutture collegate. Questo indice ha avuto un ritorno totale decennale medio di ben il 9,76%, superiore a quello di gran parte degli altri indici settoriali. Lo S&P global Oil, per esempio, ne ha avuto uno solo dell’1,61% e lo S&P Global Clean Energy Index del 3,83%.


I gestori più piccoli hanno investito pochissimo


Gli investimenti interesseranno anche l’Italia, paradossalmente proprio perché è quella messa peggio in quanto a dispersione di acqua. Perché? Perché ereditiamo una situazione strutturale altamente inefficiente, caratterizzata da una grande frammentazione della gestione. Un numero spiega (se non tutto) molto: i Comuni italiani che si occupano direttamente da soli della gestione delle risorse idriche sono 1.465, spesso si occupano solo dell’acquedotto, mentre la depurazione, per esempio, è appannaggio di un’altra società. Ma un Comune può avere le risorse per fare gli investimenti necessari per ammodernare la propria rete idrica? No, e le perdite di acqua lo dimostrano.


Ma spieghiamo meglio: il territorio nazionale (escluso il Trentino-Alto Adige) è stato diviso in 93 bacini di affidamento che, in base alla legislazione in materia, dovrebbero essere responsabilità, ognuno, di un unico gestore. Ma le cose vanno a rilento. Secondo il Blue Book di Ambrosetti, in 88 dei 93 bacini (che servono il 95% della popolazione italiana) le risorse idriche sono state affidate, è vero, a un gestore, ma in diversi casi l’operatore non è uno solo, soprattutto in Emilia-Romagna, Marche, Piemonte e Veneto. Ancora peggiore la situazione nei restanti 5 bacini di affidamento, tutti nel Mezzogiorno, per i quali non c’è stato alcun affidamento e la gestione è ancora frammentatissima.


Il risultato è che, come dicevamo, a fianco di grandi operatori integrati che si occupano di intere province o aree più vaste, ci sono 1.465 Comuni che gestiscono direttamente il proprio piccolo territorio. Servono 7,6 milioni di italiani (il 13% della popolazione), quasi tutti del Sud e delle Isole, che abitano soprattutto in paesi tra mille e 10mila abitanti (ce ne sono anche 490 con meno di mille).


Dicevamo degli investimenti. I comuni gestori in economia hanno potuto investire nel 2022 solo 11 euro per abitante, che diventano 9 al Sud e 7 nelle Isole, molto meno dei 64 euro per abitante allocati in media dai gestori idrici industriali italiani, che a sua volta è meno degli 82 investiti mediamente nell’Unione Europea (dati EurEau2021). In Germania si arriva a 92 euro, nel Regno Unito a 135, in Danimarca addirittura a 179. Si tratta di investimenti 13-25 volte maggiori di quelli che vedono come beneficiari i cittadini di molti piccoli paesi sardi e siciliani. Nessun comune ha tutti questi soldi da investire e questo spiega anche la cronica carenza di acqua durante l’estate nel Mezzogiorno e in Sicilia in particolare.


Gli operatori industriali sono più produttivi


Che i mancati investimenti dipendano molto dalla grandezza della società è dimostrato anche da altri numeri. Sempre secondo Ambrosetti quelle con un fatturato superiore a 50 milioni di euro l’anno nel 2021 hanno investito mediamente 60 euro per abitante, mentre quelle con ricavi inferiori a 10 milioni hanno potuto spendere solo 32 euro per abitante. Come in altri settori le realtà più grandi hanno a disposizione maggiori capacità di finanziamento e di pianificazione per interventi di lungo periodo e anche una produttività più alta. Le aziende che sono responsabili per un bacino di più di 250mila abitanti, per esempio, generano un valore aggiunto di 194.500 per addetto (dati 2022), contro uno di 107mila di quelle che hanno un’utenza inferiore a 50mila abitanti.


Quelle che investono di più sono, quindi, le società grandi e, in particolare, quelle quotate in Borsa o con azionisti sia pubblici che privati (58-60 euro per abitante) mentre quelle in houseemanazione della Pubblica Amministrazione locale (provinciale o regionale), hanno speso 51 euro pro capite.

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